Valentina Di Maria è un’educatrice de La Fanciullezza che in questa intervista ci racconta la sua esperienza all’interno della Casa Delfini, la comunità educativa dedicata all’accoglienza delle ragazze
Da quanto fai parte de La Fanciullezza?
«Collaboro con La Fanciullezza dal 2008, con una pausa di 4 anni nella quale mi sono occupata dello sviluppo dell’autonomia nei bambini e ragazzi affetti dalla Sindrome di Williams, una sindrome genetica rara e poco conosciuta con un’incidenza di circa uno su 10.000 nati. Un’esperienza che mi ha dato tantissimo sotto il profilo umano e professionale perché chi ne è affetto, malgrado i limiti cognitivi e comportamentali, è portatore di un flusso costante di meraviglia, una purezza e una capacità di entrare in empatia con il prossimo fuori dal comune».
La capacità di mettersi in ascolto è centrale per un educatore…
«Sì, specie quando si entra in contatto con realtà complesse come quelle delle ragazze che seguo all’interno della Casa Delfini, che ospita le giovani dagli 11 ai 14 anni. L’adolescenza è una fase delicata della crescita in cui si scopre il mondo e se stessi; se a questo si aggiungono vissuti impegnativi, l’ascolto diviene davvero il primo passo per la creazione di una relazione con loro».
Come si svolge una giornata all’interno della comunità?
«Le ragazze sono costantemente seguite dagli educatori e vivono una quotidianità scandita dagli impegni tipici della loro età in un ambiente affettivamente caldo e accogliente: la scuola, i compiti, le attività sportive, le serate a chiacchierare e guardare la TV.
La notte è forse il momento più delicato: quando scende il silenzio, sopraggiungono i ricordi delle esperienze vissute prima di arrivare in comunità. È lì che ci affidano i racconti più intimi e noi educatori entriamo a conoscenza di una versione della loro storia diversa, libera dalla freddezza di un decreto e carica invece di un’emotività inquieta che chiede conto del perché le prime persone adulte con cui si sono relazionate non siano state garanti del loro benessere psicofisico».
A questo proposito, cosa vuol dire essere per te un’educatrice?
«Penso che questo lavoro in qualche modo ci scelga: empatia, sensibilità, propensione verso l’altro sono caratteristiche che riscontro spesso nei miei colleghi. Il fulcro del mio lavoro sta nella capacità di creare un legame, specie con gli adolescenti, che accettano di essere accompagnati in un percorso educativo solo se riconoscono nell’educatore una figura autentica con la quale condividere la quotidianità.
Vi sono poi, a mio parere, due cardini attorno ai quali ruota questa professione, che rappresentano anche delle sfide continue: il primo è essere consapevoli che non esiste un’unica metodologia educativa valida per tutti ma ogni persona ha delle peculiarità che vanno comprese; occorre essere sempre pronti a modificare l’intervento educativo nel rispetto dell’unicità di ciascuno. Il secondo è essere disposti a fare i conti con il proprio vissuto e mettersi in discussione: l’umiltà e il confronto costante con i colleghi sono alla base di questa professione».
In conclusione, che cos’è per te La Fanciullezza?
«La Fanciullezza è una casa abitata da molte anime che condividono tutte un viaggio: chi è ospite ha l’opportunità di conoscere modelli educativi diversi, sperimentare molteplici attività e trovare la propria strada, in un ambiente che gli consente di rielaborare quanto ha vissuto prima della sua entrata in comunità, un viaggio alla scoperta di se stessi.
Per noi che ci lavoriamo è una continua ripartenza: ogni volta che una nuova persona varca questa soglia modifica anche le dinamiche all’interno del gruppo preesistente e questo vale anche ogni volta che qualcuno va via.
La Fanciullezza è l’idea stessa del viaggio: della valigia che fai e poi disfi per farla di nuovo, delle relazioni che si intessono nel suo svolgersi, della richiesta di aiuto e del supporto che sempre si riceve. La complicata bellezza insita in una partenza continua e l’importanza di questo procedere insieme».