«È nel rapporto quotidiano con le ragazze della Fanciullezza che gettiamo le basi per il loro futuro». L’educatrice della Casa Delfini, Laura Pietrosanti, ci parla del suo modo di vivere un impegno che può essere tanto faticoso quanto gratificante
C’è un concetto che ricorre spesso nelle parole di Laura Pietrosanti mentre ci concede questa intervista: relazione. L’educatrice di Casa Delfini intravede proprio nella capacità di costruire una relazione personale autentica con le ragazze ospiti della comunità il cuore del suo lavoro, e il segreto per superare i momenti di difficoltà. Abbiamo parlato con lei della sua esperienza personale dentro e fuori dall’associazione, e di altro ancora.
Laura, per cominciare parlaci un po’ di te: come sei entrata a far parte della “squadra” della Fanciullezza?
«Dopo la laurea in lettere, indirizzo in scienze antropologiche, ho deciso di concentrare i miei studi sul delicato tema delle migrazioni, tornato tanto attuale in questi anni. Così ho frequentato un master in politiche migratorie – uno dei primi in Italia di questo tipo – e in seguito ho lavorato come operatore in alcuni centri anti-violenza. È stato nel 2011 che ho incontrato per la prima volta questa associazione, in corrispondenza dell’apertura di una nuova comunità per stranieri non accompagnati, la Casa Gabbiani, allora in fase sperimentale. Sono passata quindi alla Casa Delfini, che ospita cinque ragazze preadolescenti, dove lavoro tuttora».
Ci aiuti a capire un po’ meglio come funziona la vita quotidiana all’interno delle comunità abitative della Fanciullezza? Guardando da fuori forse non è facile immaginarlo… Ad esempio, com’è la giornata-tipo nella Casa Delfini?
«Premesso che ogni Casa ha i suoi regolamenti e i suoi orari, in generale posso dire che quello che tutte le comunità cercano di fare è ricreare, per quanto possibile, una dinamica famigliare. Al mattino le ragazze sono a scuola, e quindi noi educatori ne approfittiamo per “fare rete”, come si dice in questi casi: facciamo colloqui con i loro insegnanti, ci interfacciamo con i medici e gli psicologi, oppure ci occupiamo di tutte le faccende burocratiche, come compilare relazioni dedicate alle singole ragazze in cui cerchiamo di capire a che punto sono del loro percorso. Poi, al ritorno dalla scuola, comincia la vita al loro fianco: il pranzo, i compiti, i colloqui con i genitori, le attività sportive e sociali, fino ad arrivare alla cena e alle serate insieme, durante le quali giochiamo o guardiamo film. Insomma, quello che avviene in ogni famiglia».
Mi sembra di capire che ci sia un’attenzione particolare agli aspetti ricreativi.
«È una componente della loro età che non possiamo negare; una vita normale passa anche attraverso i momenti più giocosi e leggeri. Per questo, accanto agli impegni educativi e scolastici, ogni ragazza a inizio anno può scegliere uno sport da praticare. Nel weekend, poi, per quanto possibile cerchiamo di organizzare uscite al cinema o al museo. Tra le nostre attività ce n’è poi una che ormai è “storica”: nel periodo natalizio organizziamo un piccolo mercatino per vendere piccoli oggetti realizzati da noi, e con il ricavato ci auto-finanziamo per le iniziative speciali. Ad esempio l’anno scorso una delle ragazze ha partecipato a una gara di hip-hop a Verona, e ne abbiamo approfittato per andare tutte con lei, attingendo dalla nostra cassa comune; per due giorni abbiamo visitato la città, un’esperienza molto bella per tutte loro. Speriamo di poterla replicare a breve, magari cambiando meta».
Qual è l’aspetto più difficile di questo lavoro? E quale invece quello che ti dà più soddisfazione?
«Mi viene da dare la stessa risposta a entrambe le domande: la relazione con le ragazze, che porta con sé momenti di gioia ma anche grandi difficoltà. Ma in fondo è quello che accade in tutte le realtà in cui l’educazione è considerata un valore. La cosa che più hanno difficoltà a comprendere è il significato delle limitazioni che si devono imporre per garantire un’adeguata tutela. Ma proviamo comunque a far capire loro il percorso che stanno compiendo, anzi, che stiamo compiendo tutti insieme. A parte queste dinamiche eccezionali, cerchiamo sempre di dare loro una sensazione di normalità».
Quando abbiamo intervistato il tuo collega Alberto ci ha detto una cosa che ci è rimasta in mente: “Quando si fa questo lavoro si mette in conto di tornare a casa la sera stanchi e magari senza aver visto risultati concreti, i frutti si vedono con il tempo”. È anche la tua sensazione?
«In parte. La fatica fa parte del rapporto quotidiano, non c’è dubbio. Ma anche nella conflittualità si può creare un autentico rapporto affettivo, un rapporto che ha anche le sue gratificazioni. Mi viene in mente ad esempio il momento in cui diamo la buonanotte alle ragazze: magari la giornata è stata travagliata, ma quando le salutiamo emerge sempre un profondo affetto reciproco. E questa è la cosa più appagante, oltre che la conferma che quello che stiamo facendo ha un valore».