Una chiacchierata con la responsabile delle Comunità Educative, Sonia Oppici, che ci presenta le case di accoglienza della Fanciullezza, un luogo dove da anni tanti bimbi e ragazzi trovano la possibilità di costruirsi un futuro fatto di piccole cose e desideri realizzabili
«Cosa vogliamo garantire ai bambini e ai ragazzi che ospitiamo? Una vita normale». Una promessa che per molti può sembrare poca cosa, ma non per gli ospiti della Fanciullezza, che spesso il privilegio di un’infanzia normale non l’hanno avuto. Per questo, quando le chiediamo di parlarci delle Comunità Educative, la responsabile Sonia Oppici – psicologa che da tempo si occupa di minori in difficoltà – ribadisce l’importanza di offrire ai ragazzi assistiti una nuova casa, dove trascorrere un periodo della loro vita nella maniera più serena possibile, senza negare loro nessuna delle esperienze che la loro età richiede.
Sonia, puoi spiegarci un po’ meglio come funzionano le case di accoglienza?
«Siamo strutturati in cinque comunità, ognuna delle quali ospita cinque ragazzi in base alla fascia d’età. Abbiamo scelto di privilegiare i piccoli numeri per offrire a ogni ragazzo un servizio su misura per le sue esigenze: non curiamo i gruppi, ma le persone. Nelle nostre case cerchiamo di ricreare un contesto quotidiano, garantendo loro le attività che farebbero rimanendo in famiglia: frequentare la scuola, vedere gli amici, fare sport… Insomma, il tentativo è quello di “normalizzare” delle vicende umane che, purtroppo, “normali” non sono: parliamo pur sempre di minori per i quali l’autorità giudiziaria ha disposto l’allontanamento dalle rispettive famiglie. Per questo, l’altro grande aspetto su cui lavoriamo è quello della rielaborazione del trauma».
Un percorso che non sembra certo facile…
«Non lo è, ma grazie alla positiva collaborazione con i Servizi Sociali, all’impegno del nostro staff di educatori specializzati e all’aiuto prezioso dei volontari, siamo in grado di raggiungere risultati straordinari. Niente ci ripaga di più che vedere le persone che sono transitate dalla Fanciullezza riuscire a ricostruirsi una vita piena e soddisfacente, nonostante la sofferenza che hanno dovuto affrontare. In fondo è questo il senso del servizio che forniamo alla collettività: prendersi cura di questi ragazzi – tra cui ci sono anche minori non accompagnati, o stranieri giunti in Italia sui barconi – vuol dire sottrarli alla marginalità e alla possibile devianza».
È davvero possibile restituire una vita normale – per usare le tue parole – a questi ragazzi?
«È possibile nella misura in cui si riesce a fornire loro un ambiente sano in cui crescere giorno dopo giorno, senza che la loro particolare condizione crei marginalizzazione. Questo vale per le grandi e le piccole cose: gli consentiamo di vivere le esperienze tipiche della loro età, come le attività sportive, un pomeriggio al parco, il cinema, una pizza con gli amici. Ovviamente sono costantemente monitorati, ma il nostro tentativo è sempre quello di edulcorare il più possibile l’apparato di tutela per non privarli di nessuna esperienza. Naturalmente questo ci crea anche qualche problema finanziario».
Cioè? A cosa ti riferisci?
«Con gli aiuti del Comune di Milano, con il quale siamo accreditati, copriamo circa il 65% dei costi di ogni minore, ma tutti gli extra sono a carico nostro. Se vogliamo offrire loro quelle esperienze di cui parlavo prima, ci dobbiamo autofinanziare, anche per cose minime come una cena in pizzeria. Sono costi aggiuntivi di cui ci facciamo carico, perché sono quelle piccole cose che contribuiscono a ricreare un ambiente familiare, ma ovviamente i nostri fondi non sono illimitati. È uno dei motivi per cui chiediamo a chiunque lo desideri di darci una mano attraverso lo strumento del 5×1000, che per noi è un aiuto preziosissimo».
Quando potete dire di aver svolto il vostro compito?
«Quando abbiamo garantito il reinserimento nella società. La Fanciullezza non è un luogo in cui si rimane per sempre; è un luogo di transito, dove si resta per un paio d’anni, il tempo di essere traghettati fuori dalla situazione difficile che si sta vivendo. Anche per questo prevediamo, nell’ultima fase della permanenza dei ragazzi nelle nostre strutture, alcuni progetti speciali per prepararli al mondo: insegniamo loro a gestire contratti d’affitto, ad aprire conti correnti, a pagare le bollette e a sostenere colloqui di lavoro, cose insomma molto concrete. Cerchiamo inoltre di sostenere i genitori che hanno vissuto momenti di grande fragilità e malessere a prepararsi ad accogliere nuovamente i figli ».
Il rapporto con i ragazzi prosegue anche una volta usciti dall’Associazione?
«Assolutamente sì. Sono moltissimi quelli che tornano a trovarci, per gratitudine o anche solo per rivedere la loro vecchia casa. E, vi dirò, non c’è niente di più emozionante che ritrovare i nostri ragazzi che si sono costruiti una vita tutta loro. Vederli è anche uno stimolo enorme per quelli che sono attualmente ospitati nelle nostre case, che hanno una prova concreta che il traguardo è possibile».