Alberto Ficara, educatore della Casa Arca, ci racconta la sua storia all’interno dell’Associazione e ci parla del suo impegno quotidiano al fianco dei ragazzi, in quella che lui stesso definisce «qualcosa di molto simile a una famiglia»
«Ricordate quello spot di qualche anno fa che diceva “Il servizio civile ti cambia la vita”? Ecco, a me è andata esattamente così: quella scelta ha cambiato la mia vita. Perché mi ha fatto conoscere il volontariato». Così Alberto Ficara, 35 anni, milanese doc, all’inizio della nostra chiacchierata ci racconta i suoi primi passi da educatore nella Fanciullezza, un’esperienza iniziata quasi per caso e che prosegue ancora oggi. Mai prima di allora, infatti, Alberto aveva pensato che nel suo futuro ci sarebbe stato il volontariato.
Alberto, da quanto tempo lavori per questa associazione?
«Per rispondere devo fare un passo indietro. È successo tutto per caso. Avevo studiato per diventare assemblatore di computer, ed ero convinto che sarebbe stata quella la mia strada, quando ho dovuto affrontare il periodo del servizio civile, proprio nell’ultimo anno in cui era obbligatorio scegliere tra quello e il servizio militare. Nei mesi trascorsi nella Fanciullezza, ho scoperto un mondo che non conoscevo per niente, e me ne sono innamorato. Così, al termine di quella prima esperienza, mi sono iscritto al corso di laurea in scienze dell’educazione in Bicocca, proseguendo allo stesso tempo il mio impegno come volontario. Fino a quando non si è presentata l’opportunità di diventare un educatore a tutti gli effetti. Quindi, per tornare alla domanda iniziale, lavoro qui dal 2006, ma in realtà la frequento da molto prima».
E cosa hai trovato di così speciale tanto da decidere di cambiare i tuoi progetti?
«Probabilmente fin da subito la molla è stata la consapevolezza di poter fare qualcosa di significativo per gli altri. Ho iniziato con bambini più piccoli rispetto a quelli con cui ho a che fare oggi, ma le dinamiche sono molto simili. E simile è la speranza di poter contribuire, anche in piccolissima parte, alla loro serenità. Quando si sceglie di fare l’educatore si è mossi dalla volontà di essere utile a qualcun altro, di contribuire in piccolissima parte al cambiamento. E, in fondo, è anche un servizio a noi stessi: gli educatori sono i primi che crescono, che imparano, che migliorano grazie ai ragazzi».
Raccontato in questo modo può sembrare un impegno molto semplice da assolvere, ma immagino invece che le difficoltà siano all’ordine del giorno, non è così?
«Le difficoltà ci sono in ogni ambito, e il nostro non fa eccezione, è naturale. Non dimentichiamoci che parliamo pur sempre di ragazzi che affrontano la delicatissima fase adolescenziale, un periodo di cambiamenti, conflittualità, anche di piccole ribellioni. Ma non ci sono problemi che non si possano risolvere usando il dialogo e la professionalità, cercando di mediare nel rispetto di ogni singolo ragazzo. Quando si fa questo lavoro si mette in conto di tornare a casa la sera stanchi e magari senza aver visto risultati concreti, ma fa parte del gioco: se siamo bravi, quello che costruiamo darà i suoi frutti con il tempo. Lo vediamo, per esempio, quando un ragazzo torna in sede a salutarci dopo alcuni anni; vedere il percorso che è riuscito a compiere è un’emozione molto grande, e il miglior incoraggiamento possibile».
Ci spieghi un po’ più nel dettaglio di cosa ti occupi?
«Sono educatore presso la Casa Arca, che ospita cinque ragazzi dai 15 ai 18 anni, perlopiù minori non accompagnati. La nostra missione è quella di offrire loro la possibilità di un futuro migliore, e quindi nel quotidiano ci adoperiamo per insegnare quello di cui avranno bisogno nella vita: facciamo corsi di lingua italiana, inserimento scolastico e lavorativo, ma anche cose concretissime come la gestione del loro denaro, cucinare, fare le pulizie… insomma, a essere autosufficienti. Anche perché, al compimento della maggiore età, dovranno cavarsela da soli. La Fanciullezza è un luogo di passaggio. Parallelamente, cerchiamo di far vivere loro anche la dimensione più “leggera” della loro età, attraverso attività sportive e ricreative, sempre attenti alle dinamiche relazionali. Per loro siamo una cosa molto simile a una famiglia».
C’è un episodio di questi anni che ti ricordi con particolare emozione?
«Ce ne sono molti… Posso raccontarvi una vicenda che spiega bene l’attenzione che riserviamo ai nostri ospiti. Riguarda un ragazzo che doveva decidere cosa fare del suo futuro: conoscendo le sue capacità gli avevamo suggerito una scuola da elettricista, un impegno di tre anni, mentre la famiglia dal suo Paese d’origine spingeva molto per un impiego più immediato, che gli avrebbe consentito di mandare loro qualche soldo per aiutarli. È stato un lungo confronto, ma alla fine, convinto delle sue capacità, ha optato per la scuola, l’ha portata a termine con successo e ora ha un impiego stabile. È una piccola storia che riassume bene il senso del nostro impegno: quando un ragazzo trova la sua strada e il suo posto nel mondo, è il nostro successo più grande».